Quando realizziamo per la prima volta che moriremo? Perché gli essere umani così spesso si oppongono all’inevitabilità della morte? Il filosofo americano Stephen Cave esplora quattro storie che l’umanità si racconta “allo scopo di affrontare la paura della morte”.
Tutte le culture nella storia dell’umanità hanno creato qualche mito o leggenda sulla possibilità di rimanere in vita per sempre. L’antico Egitto aveva un il suo mito , l’antica Babilonia, l’antica India passando per la storia Europea, dove troviamo nel lavoro degli alchimisti l’ossessione per l’immortalità tramandata fino alla scienza odierna.
Cento anni fa, gli ormoni erano appena stati scoperti, e le persone speravano che il trattamento ormonale avrebbe curato l’invecchiamento e le malattie, ora invece riponiamo le nostre speranze nelle cellule staminali, l’ingegneria genetica, le nanotecnologie. Ma l’idea che la scienza possa curare la morte è solo un ulteriore capitolo della storia dell’elisir magico, una storia antica quanto la civilizzazione.
Ma scommettere tutto sull’idea di trovare un elisir e restare vivi per sempre è una strategia rischiosa. Quando rivolgiamo lo sguardo al passato troviamo tutti quelli che hanno cercato la formula magica della vita inevitabilemente morti.
Quindi c’è bisogno di un piano di riserva che per i fedeli di qualsiasi religione si trova nel credere nella resurrezione. Tutto sta con l’idea che io sono questo corpo, questo organismo fisico. Accetto di dover morire perché risorgerò e potrò vivere ancora. In altre parole, posso fare quel che ha fatto Gesù. Gesù è morto, è rimasto tre giorni nella tomba, è risorto ed è tornato a vivere.
L’idea che noi tutti possiamo risorgere e vivere ancora è una credenza ortodossa, non solo per i Cristiani ma anche per gli Ebrei e i Mussulmani. Ma il nostro desiderio di credere a questa storia è così profondamente radicato che lo stiamo reinventando per l’era della scienza ad esempio, con la teoria crionica. La teoria secondo la quale al momento della morte, si può essere congelati, per essere scongelati nel momento in cui una tecnologia sufficientemente avanzata, consenta la riparazione, la rianimazione e la resurrezione. Alcune persone credono che un Dio onnipotente ci farà risorgere a nuova vita, mentre altre persone credono che lo farà uno scienziato onnipotente.
Per altri l’idea della resurrezione, dell’arrampicarsi fuori dalla tomba, è fin troppo simile ad un brutto film di zombie. Questi ritengono il corpo troppo caotico, troppo inaffidabile per garantire una vita eterna, quindi ripongono le loro speranze nella terza opzione, una storia dell’immortalità più spirituale e si convincono che è possibile continuare a vivere come anima. La maggior parte delle persone sulla Terra crede di avere un’anima, e questa idea è centrale per molte religioni.
Ma naturalmente ci sono gli scettici che dicono che se guardiamo le prove scientifiche, in particolare le neuroscienze, queste ci suggeriscono che la mente, la nostra essenza, il vero io, dipende molto da una determinata parte del nostro corpo: il cervello. E così gli scettici possono trovare conforto nel quarto tipo di storia di immortalità, che è l’eredità – l’idea che si può continuare a vivere attraverso l’eco che si lascia nel mondo – come il grande guerriero greco Achille, che sacrificò la sua vita combattendo a Troia così da conquistare fama imperitura. E la ricerca della fama è diffusa e popolare come mai lo è stata, e nella nostra epoca digitale, è anche più facile da realizzare. Non è necessario essere un grande guerriero come Achille o un grande re o un eroe. Tutto ciò che serve è una connessione Internet. Ma alcune persone preferiscono lasciare un’eredità più tangibile, biologica – i bambini. A molti piace sperare di continuare a vivere come parte di un qualche bene maggiore, di una nazione, di una famiglia o di una tribù, della loro eredità genetica.
Quattro storie sull’immortalità che danno un quadro generale di come queste siano state tramandate di generazione in generazione solo con lievi variazioni per adattarle alla società del momento. E il fatto che essi si ripresentano in modo similare, ma in sistemi di convinzioni differenti, suggerisce che dovremmo essere scettici della verità di una particolare versione di queste storie. Il fatto che alcune persone credano che un Dio Onnipotente li resusciterà per vivere ancora e gli altri credono che lo farà uno scienziato suggerisce che nessuna di queste storia sia credibile sulla forza dell’evidenza. Piuttosto, crediamo in esse perché siamo condizionati a crederci per paura della morte.
Quindi la domanda è: siamo destinati a condurre una vita modellata da paura e negazione, o possiamo superare questo condizionamento? Il filosofo greco Epicuro pensava che potessimo. Egli sosteneva che la paura della morte è naturale, ma non è razionale. “La morte”, ha detto, “è nulla per noi, perché quando siamo qui, la morte non c’è e quando la morte è qui, non ci siamo noi.” Questa citazione ricorre spesso, ma è difficile da cogliere fino in fondo, interiorizzare davvero, perché questa idea di non esserci più è così difficile da immaginare. Così 2000 anni più tardi, un altro filosofo, Ludwig Wittgenstein, la mise in questi termini: “La morte non è un evento della vita: noi non viviamo per sperimentare la morte. E così,” aggiunse, “in questo senso, la vita non ha fine.”
Articolo tratto da “Quattro storie che ci raccontiamo sulla morte” di Stephen Cave